2 GIUGNO 1964

Debbo correggere l’amico Gianni Ferrando, il quale ha affermato che due erano le giornate in cui si concedeva l’amnistia delle punizioni in Accademia: Al Mak p100 ed al Giuramento. In realtà, anche in un'altra evenienza si concedeva a tutti gli allievi la sicurezza di “andare in libera uscita”: il 2 giugno, festa della Repubblica.
Io, me lo ricordo molto bene, in quanto per quel giorno, essendo sicuro di “uscire” feci venire da Venezia un gruppetto di amici ed una “amica”… Ebbene prima della libera uscita per tutti, si doveva effettuare una cerimonia di circostanza, durante la quale doveva intervenire un alto “papavero” o politico (non ricordo chi fosse) in visita in Accademia. Essendo ancora vestiti con la divisa invernale -com’è consuetudine, infatti, in quel giorno si effettua il cambio divisa invernale-estiva-, si aspettava stancamente sotto il porticato, in ombra, l’arrivo dell’importante personalità. Dopo qualche tempo il sig. Ten. Lo Faso, impietositosi per il sudore che ogni allievo emanava, bardato com’era con guanti, decise di far slacciare il sottogola del Kepì e dopo poco di far slacciare il colletto della giacca di flanella che stringeva il collo. Fu quello il momento nel quale decisi di rovinarmi la giornata. Infatti dissi una battuta al mio amico Marcello Olivi: “Fra poco rimarremo in mutande!” alludendo, senza malizia alcuna, al fatto che l’illustre ospite tardava incredibilmente ad arrivare…
Probabilmente quella frase fu interpretata come se fosse stata una battuta di spirito, di mancanza di rispetto ad una decisione superiore dell’ufficiale. Uno strillo: “Stia punito” risuonò nel porticato e mi gelò il sangue, non tanto per la punizione in sé stessa: eravamo abituati a quelle fucilate talebane che arrivavano a sorpresa improvvisamente, ma pensavo alla figuraccia che stavo facendo con i miei amici che avevo fatto venire da Venezia e non sapevo come fare ad avvisarli…
Arrivò l’Eccellenza finalmente. Facemmo la nostra parata. Udimmo da lui i soliti elogi alla nostra bravura, alla nostra velocità, al nostro senso del sacrificio ed amore per la Patria, alla nostra disponibilità in tutti i campi, mentre io pensavo che se quel figlio di buona madre che parlava così altisonante, fosse venuto in orario “lui”, io sarei potuto uscire liberamente… Venne alla fine il momento in cui si aprirono i cancelli e tutti, dico “tutti”, imboccarono inquadrati quel portone agognato. Solo io, che ero al lato destro della colonna mi defilai e, prima del varco uscii dai ranghi per restare in Accademia. Aspettai sul posto che defluissero tutti, quantomeno per avvisare a gesti i miei amici che aspettavano fuori tra la folla, di venire in parlatorio in quanto non potevo uscire.
In quel momento, pensavo, avevo l’onore ed il privilegio da record di essere l’unico punito dell’Accademia, “non è da tutti”, quando alle spalle sentii un vocione stentoreo: “Lei che fa qua dentro?” Era quel nobiluomo del Col. Casalini che mi vedeva gesticolare come un vigile urbano, cercando di attirare l’attenzione degli “esterni” e non capiva il motivo. Feci presente che ero stato punito, ma egli mi riprese che c’era stato il condono di prammatica. Al che feci presente che ero stato punito dopo il condono. Egli era frastornato, perché, probabilmente, preso da un senso di giustizia e di comprensione umana per il mio caso, quando feci presente, mentendo, di avere dei “parenti” in attesa fuori…
“Ma che mi sta dicendo! Oggi c’è il condono e lei può uscire - sparò deciso e sicuro- Anzi,… io le ordino di uscire… Con il suo comandante, me la vedo io”. Non mi venne altra frase storica che quella garibaldina: “Obbedisco!” Scattai col saluto battendo i tacchi facendo un “botto” simile a quello provocato da un plotone intero.
Uscii, incontrai gli amici, andammo a ballare e poi al cinema a vedere “La corsa più pazza del mondo”.
Quando rientrai in Accademia fui ordinato di recarmi in fureria dal Capitano Civita che mi chiese conto della faccenda. Raccontai i fatti come erano andati, essendo uscito in quanto “comandato” di farlo da parte del Com. di Reggimento. Al che il Capitano mi riprese scandendo, sillabando le parole: “Ma lei si doveva sentire “moralmente” punito!”
“Io sono uscito perché comandato di farlo -ribattei candidamente-, ma, moralmente, io mi sentivo…. Punito” conclusi seriamente quasi avessi giurato sulla Patria.
Annuì lentamente il Capitano. Non so se, perché accettava la mia presa per i fondelli come una conclusione della diatriba, o perché stava sbottando anche lui dalle risate, pensando alle fregnacce che ci eravamo vicendevolmente, seriamente, militarmente scambiati…
Comunque, dopo anni, seppi che il Col. Casalini fece un vero e proprio cazziatone al Capitano per averlo costretto ad emettere un ordine contro una decisione molto discutibile di un altro ufficiale.
Roberto Pepe