Gli occhiali di Franz

(brano tratto dal libro omonimo - pagg. 57 - 63)

La chitarra di Giovanni Garino aveva perso una corda durante uno dei tanti precipitosi trasferimenti. Lui la suonava lo stesso e con dolcezza accompagnava il suo canto. Tutta la voglia di vivere che sprigionava dal suo sorriso colorava la voce, la rendeva gaia, ora limpida e ora profonda, stonata in quel mondo di brutture. Cantava canzoni popolari, spesso in dialetto, e di solito lo faceva alla sera, prima di dormire. Quando l’inferno lo permetteva cantavano insieme e Campilli col suo vocione da basso si divertiva a fare il controcanto.
Di ritorno da Marostica, dove eravamo stati in un magazzino per ritirare matasse di cavi telefonici, rientrammo alla compagnia: eravamo rintanati davanti ad Arsiero.
Avevamo comperato alcune bottiglie di vino e alla sera fu impossibile trattenere la malinconia che uscì dai nostri cuori accompagnata dal merlot: iniziammo sommessamente la prima canzone, poi due, tre e via senza sosta.
Garino amava cantare la “Monferrina”e inventare sempre nuove variazioni al tema. Quella sera si divertì più del solito e nel vino gorgogliarono allegramente le parole, annegandovi poi a una a una.
Fu proprio alla fine del canto che dalla trincea austriaca una voce baritonale ripeté goffamente: “ E poi pa pì, poi pa pì “.
Il buio avvolse tutte le risonanze e noi ci guardammo ridendo. La notte era rischiarata dalla luce diffusa della luna filtrata dalle nuvole. La voce di prima la attraversò ancora e: “Canta italiano Sole mio “. Tacemmo guardandoci negli occhi fin quando Campilli sbottò: “Che t’aggia dì, io gliela cantassi, vediamo che fa” e partì con il ritornello: “Ma n’tu sole cchiù bello oi né, ‘sole mio sta ‘n fronte a te! ‘O sole, ‘sole mio…”.
Io, tacito, spiavo dall’orlo della trincea la linea austriaca. Garino provò ad abbozzare un accompagnamento improvvisato, la musica napoletana non era il suo forte, tuttavia al termine del canto da quel solco si alzò un piccolo rispettoso battimani.
Campilli gongolò e Garino, probabilmente geloso del battimani ricevuto dall’amico borbottò: “Adesso li ammazzo tutti, gli canto l’Ave Maria come la cantavo in chiesa , in latino. L’ho imparata da piccolo. Tedesc, scuta stà musica!”.
Iniziò a cantare con dolcezza, la sua voce chiara richiamò alcuni dei nostri e si formò attorno a noi un capannello. Requiem, orazioni, messe, implorazioni, alla musica sacra non è concesso mai di scherzare, deve frugare fra i sentimenti e metterli in ginocchio davanti all’eternità. O forse solo alla chiesa. Le parole di quel canto sono insignificanti, sublime e struggente è la musica, capace di insinuarsi dentro ciascuno di noi e far vacillare anche i più sensibili.
Quel dolce lamento cantato di notte sui campi della morte dove ogni cosa era surreale, fece provare a tutti noi una sensazione di totale smarrimento,quasi in quel momento avessimo varcato la soglia di una cattedrale.
“Me fa venire la pelle d’oca!” sospirò con la solita garrula ilarità Bovolenta, accorso fra gli altri.
Garino proseguì, cantava ad occhi chiusi e, come l’edera tra i mattoni, il suono dolce di un violino si abbarbicò alle sue parole: “Ora, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis, et in hora mortis nostrae. Ave Maria…” E concluse.
IL violino continuò, quasi per giustificare la propria assenza nella parte iniziale dell’esecuzione e, scaldandosi, il suonatore sembrò rincuorarsi, il sentimento si sciolse dolcemente come miele nel latte caldo.
Tutti noi tacevamo. Una voce rotonda e sicura riprese il canto in un latino perfetto anche se teutonico nella pronuncia. I suoni si allontanavano con la forza maestosa di uno stormo di migratori in volo, capaci di volare sicuri, silenziosi, tracciando un solco verso lontani paesi di sogno.
In quei giorni il cielo era percorso da nuvolaglie che di notte impedivano alla luna di svolgere il suo lavoro, diffondendone la luce come un paralume di cartapecora.
Fu in quello scenario che vedemmo comparire alto sulla trincea un uomo con in mano un violino. Fece un inchino con la testa, dicendo: “Lieder von Kapellmeister Franz Schubert. Io Paschale Farkas “. Restammo in ammirazione e anche da noi si levò un battimani. Questo è probabilmente un ungherese.
Garino dovette provare un senso di inferiorità, lo tradì la sua espressione delusa. Istintivamente e senza rendercene conto anche noi eravamo in piedi sul ciglio della trincea.
Accanto a Paschale due nemici ci salutarono con un gesto della mano. Il violinista iniziò a camminare verso di noi, spinto dalla forza affratellante della musica.
Garino e Campilli lo imitarono andandogli incontro e scavalcando ostacoli, rottami e reticolati. Arrivati a pochi metri di distanza e separati da un ultimo ammasso di fili spinati, si guardarono negli occhi. “Budapest “, disse l’uomo. Poi si strinsero la mano. Nessun’altro parlava.
Mestamente ciascuno tornò verso la propria trincea, pensando tutti la stessa cosa.
La poca luce fu sufficiente per far brillare le lacrime che riempivano gli occhi di Campilli.
Post scriptum : Come la forza sublime della musica e il bel canto possono accumunare il sentimento della fratellanza e della amicizia, mettendo da parte l’odio e la violenza. Anche se solo per un momento.
Pier Gianni Ferrando