LA LIBERA USCITA

Aspettavamo il sabato e la domenica per la sospirata libera uscita. Che purtroppo a buona parte di noi veniva sovente preclusa perché puniti durante la settimana con le motivazioni più varie e a volte strambe. Costretti a rimanere “dentro”potevamo usufruire di poche alternative di svago: il circolo allievi, il salone studio, il campo ginnico, la camerata. La percentuale dei puniti, definiti più comunemente “consegnati”, era del dieci- venti- trenta percento, più alta per una compagnia, meno per un’altra. Naturalmente noi della terza battevamo quasi sempre il primato.
La libera uscita è preceduta da una adunata generale nel cortile d’onore di tutte le otto compagnie con i liberi uscenti sul davanti e i consegnati dietro insieme a quelli che non avevano … voglia di uscire! Roba da non crederci.
Si esce in uniforme storica previa “rivista”da parte dell’ufficiale di servizio che verifica l’ordine e la pulizia dell’uniforme comprese le scarpe e la cura personale( capelli,barba,basette,baffi ). Durante la rivista si rischia di passare dietro e di infoltire il gruppo dei consegnati, con beffardi risolini di questi. Dopo di che, al tempo della marcia di ordinanza della Accademia, gli allievi risultati in ordine escono inquadrati per reparto sotto la guida del graduato di turno che impartiva i seguenti ordini: “avanti marc – destra marc per i cappelloni( sinistra marc per gli anziani ) … attenti a … sinistr( alla lapide dei caduti posta nell’androne ) … fissi( superato l’atrio ) … alt – in libertà( a volte sostituito con l’ufficioso “sparire”) è l’ultimo comando. Con un “ooooh” liberatorio ci disperdiamo per la città, chi in gruppo, chi in coppia, chi solo. Tempo a disposizione: dalle 20.30 alle 23.30 il sabato,dalle 14 alle 20 la domenica.
E dove si andava? Dipendeva dalla stagione e dal giorno. Al sabato, in autunno – inverno, si entrava in un bar. A Modena ce n’erano di grandi, come quello sulla via Emilia all’ angolo con via Farini, dove capitava sovente di incontrare il collega Burattini seduto a un tavolino che … plaf … plaf … mandava giù bignè e brioches. Abitudini che non sono cambiate nonostante gli anni. Così Edmondo De Amicis, cadetto a Modena nel 1865, ricorda la città: “… la piazza, il duomo, i caffè pieni di allievi che divorano paste …”. Ne frequentavamo un altro, più signorile, sito in largo Porta Bolognese, con tavolini posti lungo le ampie vetrate da cui si intravedeva – nebbia permettendo – la facciata del neoclassico teatro Storti.
Qualcuno, in compagnia di genitori o parenti, ha l’occasione di gustare la buona cucina dell’allora poco noto ristorante Fini, in largo Garibaldi. Da soli non abbiamo la possibilità di frequentarlo per le nostre misere finanze. Percepiamo una indennità mensile di lire diciottomila, di cui la metà viene trattenuta dal Comando per la confezione delle divise da ufficiale al termine del biennio accademico. Ci accontentiamo delle pizzerie. Ricordo quella in piazza Mazzini, in fondo a destra arrivando da via Emilia. Una sera proprio in quella pizzeria mentre sto per entrare in compagnia di Zalla e Pellegrino quasi mi scontro con l’istruttore Antonino Tita. Prontamente scattiamo sugli attenti e salutiamo. Lui risponde al saluto tutto gongolante trovandosi a braccetto con una ragazza che si distingue per un biondo caschetto. Pettinatura che andava di moda. Lo portava anche una giovane Caterina Caselli( di Sassuolo! ), che incominciava proprio quell’anno ad avere successo.
Diciamo che non era frequente incontrare in giro per la città un cadetto accompagnarsi con una ragazza. Anzi, soltanto alcuni anni prima era proibito e l’allievo, beccato da un superiore, era invitato a rientrare a Palazzo e il suo nominativo finiva sulla tabella con questa motivazione: “a diporto si accompagnava con una signorina non legata da vincoli di parentela” ( sic.). In poche parole era consentito solo con una sorella o una parente! Quanto riportato risponde a verità. E’ successo ad un allievo del 17^corso( 1960-62) a cui è capitata tale disavventura.
Più sovente si andava al cinema. Volendo a teatro, in tal caso occorreva essere provvisti di permesso TST, che stava per termine spettacolo teatrale. Ma non era facile ottenerlo.
Al cinema cerchiamo di essere galanti nel cedere il posto a ragazze rimaste in piedi. In verità il nostro intento è rivolto ad un eventuale approccio. Una volta mi capita di cedere il posto per consentire ad una fanciulla di sedersi accanto ad una signora e mi sposto nell’ultima fila accanto a dei colleghi. Nell’intervallo vediamo venirci incontro, in divisa, il ten.col. Ghigo, comandante del secondo battaglione allievi. Ci alziamo, con un gesto della mano ci fa risedere e chiede chi di noi poc’anzi ha permesso a sua figlia di sedersi. Nessuno si fa avanti. Avrei dovuto rialzarmi e sugli attenti rispondere: “Signor colonnello sono stato io, allievo Ferrando Pier Gianni”. Invece sono rimasto in silenzio, non so se per pudore o per timore. Proprio così, Ghigo, comandante dei nostri anziani, aveva una severa espressione sul volto, gloriandosi, dicevano, della fama di duro.
A proposito il film che quella sera proiettavano( allo Splendor? ) era “Italiani brava gente”.

La libera uscita della domenica è la più attesa, perché più lunga, dalle 14 alle 20. Ben sei ore. La libera uscita dalle 14 è stata “inaugurata”con il 18^ corso. Prima si usciva alle 16. E cosa facevano i cadetti dalle 14 alle 16 ? Studiavano! O meglio mugugnavano soprattutto in primavera quando si sentivano dalle finestre aperte le canzonette dei jukebox e le allegre voci di ragazze e ragazzi a spasso nei giardini , là proprio sotto il salone studio.
Per tutto il mese di novembre e parte di dicembre si esce in uniforme di servizio, bustina e giacca vento, in quanto le uniformi storiche non sono ancora disponibili per tutti.
Si usciva e il più delle volte si andava a zonzo senza una meta o uno scopo preciso. Si cercava un telefono pubblico per avere notizie di casa. Allora non c’erano ancora le cabine telefoniche a gettoni o a scheda.
Si andava allo stadio anche perché quell’anno il Modena calcio militava in serie A. Ricordo di aver assistito, in compagnia del collega Politi, all’incontro Modena – Sampdoria, finita tre a zero per la squadra di casa. Una partita tranquilla con un tifo moderato,qualche striscione e bandiera. Niente fumogeni,petardi o oggetti lanciati in campo. Grida, urli, fischi, battimani, questi sì, a iosa.
Sovente si andava alla stazione per controllare l’orario ferroviario con le varie coincidenze e davanti ai tabelloni si fantasticava un viaggio a casa.
Una domenica di primo pomeriggio salgo sul treno per Bologna. Non era permesso perché “ fuori presidio”, ma avevo un forte desiderio di evadere. Sul treno incontro uno del mio corso, Mario Ferraiuolo della prima compagnia, che aveva avuto la mia stessa idea. Arrivati a Bologna prendiamo per via Indipendenza e piazza Maggiore. Passeggiando sotto i portici, sentiamo provenire da alcune finestre il suono di una orchestrina. E’una sala da ballo. E lì sul momento, senza pensarci su, decidiamo di entrare. E’un locale modesto con poltroncine di velluto e paralume di luce soffusa sui tavolini. Le persone presenti sono in gran parte di una certa età. Facciamo un paio di giri di ballo con dame di qualche lustro più di noi. Ma che importa, adesso che siamo entrati non ce la sentiamo di uscire presto. Ci siamo fermati un paio di ore. Riusciamo a ritornare in tempo in Accademia, grazie ai treni allora sempre in orario. Naturalmente agli altri raccontiamo di aver avuto avuta una avventura di quelle che non si dimenticano … Ma quale avventura! Due giri di “lissio”e buonasera!
A Modena si frequenta il Mocambo, una sala da ballo nei pressi del teatro Storti. E’ uno dei pochi locali , insieme all’Eden di piazza Marconi, aperto anche al pomeriggio dei giorni festivi, frequentato dagli allievi del primo e del secondo anno. Nell’ “Inno al Ventesimo”così lo ricorda con un velo di nostalgia Roberto Pepe del terzo plotone della nostra compagnia: “Ballare al Mocambo nel giorno di festa/E’ solo un sogno, ma sono consegnato”. Pepe era spesso punito.
Al personale del guardaroba, oltre al kepì e i guanti bianchi, consegniamo il cinturone con lo spadino. Così si è più liberi e meno impacciati nelle danze. Capita raramente di ballare, il più delle volte si ascolta la musica, si beve e si chiacchiera tra di noi, si sbircia attorno, si ammicca un sorriso
Appena accennato. Sovente la ragazza puntata, incontrato il nostro sguardo, si volta dall’altra parte. E va beh!
Un pomeriggio ci va bene, anzi a meraviglia. A un tavolino poco distante dal nostro ci sono quattro ragazze che non nascondono di attendere un nostro invito. Ehi … sono quattro come noi! Rapisiculo( è un nomignolo) è il primo ad alzarsi e a rompere il ghiaccio. Appena vediamo andare in porto l’approccio, d’un balzo siamo attorno al tavolino e dopo il rituale invito “signorina permette questo ballo?”siamo tutti in pista. Oh anziani, perché ci guardate con quell’aria mesta di stupore e di invidia? Ben vi sta, guardate i vostri cappelloni che sanno fare! E voi fanciulle di Modena, sì siamo noi, cadetti dell’Accademia che ballano con chi ha accettato subito il nostro invito, mentre voi quanti sotterfugi e pretesti siete solite accampare ad ogni invito! Tra l’altro le dame con cui stiamo ballando sono carine e simpatiche. Offriamo da bere, parliamo della professione che abbiamo scelto, una realtà che ci inorgoglisce e ci intimorisce nello stesso tempo. Sono studentesse venute da Reggio Emilia con l’auto di una di loro. Ci parlano di materie di studio, di voti, di insegnanti terribili e buoni, di aspirazioni, tutte cose che ben conosciamo perché già vissute. Balliamo in coppia e in gruppo. Riusciamo bene nel twist e nell’hally gally e quando l’orchestrina suona “In the mood”,il più noto boogj americano, uno di noi, non ricordo chi, si esibisce incurante del peso e della stretta abbottonatura della divisa.
Verso le diciannove le accompagniamo al parcheggio perché anche per loro sta per terminare la libera uscita e da brave figliole devono far rientro a casa. Prima di andarsene ci lasciano il recapito telefonico. Noi facciamo vedere loro l’ingresso del palazzo ducale e diciamo: “noi stiamo lì dentro”. Ma non potevamo interessarle con qualcosa di più carino? Mah! Non possiamo rilasciare il nostro numero telefonico … e poi quale? L’unico è quello della fureria di compagnia, tra l’altro un numero interno. E se a una loro chiamata Franzolini, paventando un attacco alla nostra verginità, rispondesse: “Lei deve sapere che la divisa del cadetto è un saio e che noi ogni giorno ci prepariamo alle cose serie!”, o Leonardi, spiazzato da una chiamata così inattesa: “Ehm … ehm … non la sento chiavo, la linea è disturbata … plovi domani!”,oppure Lo Faso, scambiando la voce per quella di un collega burlone: “Uh … uh … piantala di rompere … tanto prima o poi ti scopro!”. E se mai rispondesse Civita, sfoggiando una galanteria fin troppo espansiva: “Oh, cara signorina, mi spiace ma gli allievi sono impegnati tutto il giorno, parli con me, io sono il loro capitano, il comandante della terza compagnia, la più bella che ci sia!”.
No, è meglio di no. Lasciamo perdere. E rispondiamo loro: “Vi cerchiamo noi, alla prossima”. Si, alla prossima. Si spera. La sperata occasione di rivederle non si è più presentata. Colpa della nostra impegnativa attività, con tutti gli annessi e connessi.
Di quella che ho conosciuto rammento il nome, Raffaella, di Reggio Emilia, figlia di un colonnello di artiglieria – così mi disse – e in parte la sua fisionomia: castana, di un bel castano chiaro, occhi luminosi, sorriso dolce, spigliata. In licenza estiva ricevetti una sua cartolina, a cui non risposi. Non so il perché.
Pier Gianni Ferrando