L’ESCURSIONE INVERNALE DI FINE GENNAIO 1964

Il mattino presto di una domenica(!)umida e nebbiosa di fine gennaio si parte per l’escursione invernale di dieci giorni. La destinazione è Pievepelago, nel Frignano, sull’Appennino Tosco-Emiliano, novanta Km a sud di Modena.
Il trasferimento viene effettuato con una lunga autocolonna di camion ACM, con il telone abbassato sui lati. Ci sistemiamo in sedici su ogni autocarro con zaini e zainetti al centro.
Infagottati nei lunghi cappotti con sotto l’uniforme di servizio, camicia e cravatta(!) e a tracolla la maschera antigas sulla sinistra e la borraccia a destra, come prevede il regolamento, ci guardiamo tra di noi, ancora assonnati, nel cassone immerso in una malinconica penombra. Siamo così stretti l’uno all’altro che a stento possiamo effettuare piccoli movimenti.
Nel tragitto un po’ tutti soffriamo di nausea e mal di testa per le tante curve della vecchia statale n.12 e per il gas di scarico che entra nell’abitacolo. Per fortuna alla sosta di Pavullo ci viene distribuito del caffè caldo e possiamo scendere per respirare aria pura e sgranchirci le gambe.
Scendo per primo. Mentre cerco di stirarmi un po’ sento da dietro un voce: “ma … Fervando si stiracchia? Oh … prenda questo bidoncino e distribuisca il caffè a tutto il plotone!” Naturalmente ciascuno deve tirare fuori il gavettino dallo zainetto, creando trambusto nella risalita sul camion alla ricerca del suo. E si sente borbottare: “ma dov’è? … questo non è il mio … è il tuo? … ma non vedi che ce l’ho in mano?”
Da un vicino pullman si sente strimpellare una chitarra. L’accompagnano gioiose voci in una canzone in voga. Mi avvicino ma non troppo. Sono ragazzi e ragazze in gita sulla neve, in sosta come noi. Indossano attillati pantaloni da sci, vistosi maglioni, copricapi con multicolori pompom. Mi guardano come fossi un estraneo. Mi guardo. Non hanno torto, così conciato mi vedo un po’ buffo. Mi allontano.
Un richiamo: Santariini, non mi faccia scappare la pazienza! da parte di Lo Faso, seguito da un vocione:salire! (Leonardi) e un prolungato colpo di fischietto(Franzolini?) avvisano che è l’ora di ripartire.
Risaliti, riprendiamo il viaggio. Ancora curve, una dopo l’altra, che non finiscono mai. Si sale e appare il sole che abbaglia sulla neve in alto, ancora lontana, poi sempre più vicina. Ad un bivio assistiamo ad una scenetta inaspettata. L’autocolonna ha rallentato, in mezzo alla strada intravediamo il comandante del primo battaglione allievi, il titolato scuola di guerra ten. col. Gian Fabio Polzot che con piglio deciso indica, con la paletta impugnata e col braccio sinistro disteso, la deviazione per la destinazione assegnata alla nostra compagnia. Scorgiamo accanto a lui uno sconsolato soldato esautorato dalla funzione di moviere e l’aiutante maggiore di Polzot, piuttosto perplesso. Siamo noi della terza che dobbiamo svoltare a destra per Roccapelago, mentre il comando con la prima e la seconda compagnia alloggiano a Pievepelago, e la quarta prosegue per S.Anna Pelago.
E’ passato mezzogiorno quando arriviamo a Roccapelago, piccola frazione del comune di Pievepelago. Si trova ad una altitudine di 1100 metri, è composta di poche case, alcune diroccate e abbandonate da tempo, strette attorno alla chiesa e al suo piccolo cimitero. Sulla piazzetta si affacciano una bottega con annesso bar e una palazzina ad un piano con la scritta scuole comunali. In questa vengono stabiliti gli alloggiamenti per il secondo plotone. Un materassino gonfiabile e alcune coperte costituiscono il nostro giaciglio. Niente lenzuola perché si va a letto vestiti, niente riscaldamento perché … non c’è. Gli anfibi e gli scarponcini , con relativo cartoncino nominativo, vengono sistemati alla sera nei bagni.
La colazione e il rancio vengono distribuiti e consumati in piedi nella piazzetta attorno a una tettoia che tiene al riparo una cucina da campo su ruote. Qui si svolgono le adunate prima delle escursione e delle attività collaterali previste dal programma.
La gente sull’uscio di casa e dalle finestre ci osserva attirata dalla novità e dalla esuberanza di così tanti giovani. Per sentito dire era dal lungo inverno 1944-45 che non vedevano soldati e non sentivano ordini ad alta voce e rumore di passi cadenzati. Poco più in alto, a sud della borgata passava la “linea gotica”. Posso pensare che nella loro memoria non sembriamo molto diversi dai giovani di quel freddo inverno, così affardellati come siamo, sotto lo stesso cielo plumbeo, in fila per il caffè latte e la pagnotta davanti alle cucine fumanti.
Il primo giorno, al mattino, saliamo su di una altura poco distante per effettuare l’inquadramento topografico e il relativo orientamento orografico. Dalla borsa portacarte tiriamo fuori bussola, righello, reticolo angolare, foglio 1:100.000 e tavoletta 1:25.000. Mettiamo in pratica gli insegnamenti appresi in aula. Quanti monti abbiamo conosciuto! Alcuni nomi mi sono rimasti impressi e li ricordo ancora: Alpesigola, Sasso Tignoso, Nuda, Montalbano(come il nostro compagno) e il monte Cimone, il più alto(m.2165) a giro d’orizzonte, bianco di neve e superbo nella sua mole piramidale. E poi il passo delle Radici che mette in comunicazione la Garfagnana toscana con il Frignano emiliano, a destra Piandelagotti, a sinistra in basso S.Anna P. e appresso Pievepelago, il centro più importante.
Al pomeriggio ciascun plotone effettua una marcia di ricognizione di un paio di Km sia per abituare il passo su terreno innevato, sia per riconoscere e memorizzare i monti, le alture, le valli, i costoni. La neve copre tutto il paesaggio tanto che i viottoli e le mulattiere sono riconoscibili solo in parte. Le poche casa sparse vengono individuate e riconosciute sulla tavoletta.
E’ ormai tardi ma c’è il tempo per scattare la foto di plotone con lo sfondo montano innevato. In ventidue ci stringiamo attorno al nostro comandante di plotone che sorride pacione e bonario come un prete di montagna.
Il giorno dopo si svolgono al poligono occasionale di Sasso Tignoso le lezioni di tiro con il MAB mod.48. Raggiungiamo il posto con una marcia di alcuni Km. Lungo uno stretto viottolo innevato. Nevica ma ciò non impedisce l’attività in programma, anzi la campagna ovattata sotto la neve, i fiocchi che bagnano il viso ci rendono di buon umore.
Arrivati, si iniziano i tiri. Prima spariamo da fermi, in piedi, a colpo singolo, arma alla spalla, con le sagome poste a quaranta metri. Passiamo poi a “fuoco marciante”: con l’arma ben stretta sul fianco, effettuiamo brevi raffiche in movimento con un caricatore da trenta colpi. In questa seconda lezione di tiro otteniamo risultati più soddisfacenti, come possiamo constatare dai fori lasciati dalle pallottole sui bersagli. Ecco perché è definita arma d’assalto.
Al ritorno in sede incontriamo un gruppetto guidato dal tenente Lo Faso che torna indietro con passo veloce, incaricato di recuperare un allievo “di vedetta”dimenticato sulla zona di sgombero del poligono. Costui( D’Arrigo ?), ligio alla consegna ricevuta, era rimasto sul posto ,solo, sotto la neve ad aspettare il cambio. Inconveniente che “non deve capitare quando si tratta di uomini”, ci raccomanda di tenere presente il capitano Civita, prima del rancio. Il nostro comandante, sempre molto attento, non tralascia di darci continui ammaestramenti sulla nostra futura azione di comando e di responsabilità. Anche se tardi, sono passate le due, mangiamo di buon appetito un pranzo caldo.
Quella sera, insieme a Ladillo e D’Onofrio ci scoliamo quasi un bottiglione di lambrusco, “sciorbole” com’era frizzantino!”.
Nel pieno della notte mi alzo per smaltire la sbronza. Quando nei bagni vedo le scarpe allineate, tutte con il loro bel cartellino e il nome in evidenza, mi passa per la mente una perfida idea: scambiare i cartellini escludendo il mio e quello di qualcun altro. Subito fatto. Dopo, quatto quatto me ne ritorno a posto. Nessuno mi ha visto, dormono tutti, qualcuno russa.
Al mattino scoppia il finimondo. Chi assonnato brontola perché la scarpa non gli entra, chi sbraita perché quella che ha in mano non è la sua, Miscia e Iacopi che vengono quasi alle mani per gli anfibi contestati, Malpaga che si lamenta perché gli scarponi che sta calzando sono sporchi, mentre era sicuro di averli lucidati la sera prima, Cuscinà che ancora ignaro e sotto la spessa coltre di coperte continua a chiedere: “ma cosa succede?”. Tutti gesticolano, alzano la voce e se la prendono con il misterioso responsabile: “ma chi è stato? … sto fio de nà mignotta! … se lo prendo lo meno di brutto!”.Mentre io assunta la mia seconda faccia, quella da prete( sono dei “pesci”) continuo a pontificare: “cribbio, questi scherzi non si fanno”.
Nel momento di maggior trambusto si apre di botto la porta. Entra tutto bardato e rosso in viso il tenente Leonardi: “Coosa … cos’è questo casino! … plesto uscite … gli altri plotoni sono già plonti!”.Ma, signor tenente, qualcuno ha cambiato il posto delle scarpe”. “Oh … oh, scarpe o non scalpe adesso bisogna uscire … fate plesto … per il colpevole vediamo poi”.
La ricerca fu presto abbandonata. Non si trovava il responsabile .
Certamente, a detta di molto colleghi non potevo essere io … con quella faccia da prete.
Contibua...
Pier Gianni Ferrando