CAMPO ESTIVO DEL 1964 – L’ESCURSIONE SUL MONTE NUDA

Sabato 27 luglio 1964 è in programma l’escursione alla cima del monte Nuda, sulle cui pendici è stato installato l’accampamento. Per salire sulla vetta del monte, alto 1775, si deve superare un dislivello di 650 metri. Partendo da una quota di 1100 metri circa. Partecipa la compagnia al completo, con i propri comandanti. Per quel giorno niente tuta mimetica: al suo posto pantaloncini, camicia, bustina, cinturone, fucile, borsa porta-carte e l’inseparabile zainetto con dentro la giacca a vento, un cambio di biancheria e un sacchetto di cibarie .Un abbigliamento leggero adatto alla scampagnata(?) che ci attende.
Guida la compagnia in fila indiana il capitano Civita, lo segue l’allievo Antonio Sisto con la radio, dietro i tre plotoni. In testa alla colonna il tenente Leonardi fa da battistrada e controlla di tanto in tanto il percorso sulla carta.
Ad un certo momento la marcia si arresta. Che succede?.Cerchiamo di sbirciare in avanti. Si intravedono Civita e Leonardi guardare la carta, indicare col braccio ora qua ora là, riguardare la carta, rialzare gli occhi. Questo si ripete un po’ di volte. Si è sbagliato sentiero? Probabilmente sì, perché l’errore di orientamento ci costringe a salire il pendio sulla destra per prendere un sentiero più in quota. Arriva infatti l’ordine di Civita “ seguire a zig zag” e riprendiamo la marcia, accodandoci a Leonardi, sempre capofila. La ripida salita ci obbliga ad uno sforzo faticoso.
Quando raggiungiamo il sentiero giusto, il parmense Sisto sbatacchia a terra la radio R/300 (un ferrovecchio di 20 Kg), si siede spossato su di un sasso e chiede il cambio. Lo sentiamo mormorare : “ al diavolo gli Alpini! … se devo fare questa vita io non ci vado”.Da quella volta non parlò più di Alpini.
Proseguiamo per un lungo tratto con una pendenza lieve, confortati dall’ombra di alti faggi. L’ultima parte della camminata diventa difficoltosa dovendo superare una serie falde rocciose intervallate da strati pietrosi. Siamo sotto il sole, nessun riparo, ci sembra di attraversare i colli carsici( vds. foto di Paglialonga sul ns.N.U.). Sudiamo. Sono passate le dodici quando arriviamo sul monte Nuda. Abbiamo impiegato oltre quattro ore per superare un dislivello di 650 metri.
Sulla cima è piantata una vecchia croce di legno, uno dei bracci è spezzato, su quello rimasto è incisa la parola “spes”. Forse sul braccio mancante c’era scritto “fides”oppure “caritas”.
Per radio si avvisa il Comando che la compagnia è giunta in vetta. Seduti ascoltiamo il tenente Lo Faso che effettua l’inquadramento topografico a giro d’orizzonte interrogando ora un allievo ora un altro. Spira un’aria fredda, nuvole bianche e nere si stanno avvicinando da nord. Indossiamo la giacca a vento.
Tiriamo fuori il sacchetto viveri per il pranzo al sacco che a qualcuno ricorda le allegre scampagnate con i gruppi parrocchiali di qualche anno prima. Scende qualche goccia, le nuvole si fanno minacciose, il tempo pare volgere al brutto.
Sopraggiunge l’ordine di allestire per la marcia. Si rientra e questa volta il percorso è in discesa. Superata la zona più difficoltosa rappresentata dalla vasta pietraia, Civita ordina l’alt. Ci voltiamo a guardarlo. E’in coda, solo. Il capitano è rivolto verso la cima, porta le mani alla bocca, urla a gran voce : “ moonte Nudaaa … tieee!”, mimando il gesto dell’ombrello. Pronta è la risposta di tutti noi( che reattività) : “ tieee! … tieee! … tieee! …”intercalati da altrettanti gesti ombrellari e grida sarcastiche. Il saluto di Civita e di tutta la compagnia al monte non poteva essere più appropriato e condiviso. Non avremmo più visto il monte Nuda. Senza rimpianti.
Incomincia a piovere, la giacca a vento ci ripara solo in parte, la bustina presto si inzuppa, il viso si bagna, il sentiero diventa un rigagnolo, gli anfibi per ora reggono.
Sulla via del ritorno ci imbattiamo nella prima compagnia che rientra dall’escursione su di un altro monte, naturalmente meno alto del Nuda. Ma loro non sono della terza!.
Assistiamo all’incontro tra il nostro capitano e il comandante della prima, capitano di fanteria Giovanni Bucciol. I due si mettono in testa alla colonna, proseguendo spediti. Parlano tra di loro. E dai soliti ben informati veniamo a sapere di alcune chicche. Lungo il sentiero Civita cerca di procedere sulla parte meno bagnata, Bucciol si ostina a camminare dentro il rigagnolo. “ Ma stai dalla mia parte che non ti bagni gli anfibi”lo invita Civita “ Ma guarda, è incredibile come noi fanti camminiamo bene nell’acqua senza bagnarci i piedi”(sic.). La conversazione procede con : “Sai Bucciol, noi artiglieri spariamo a tiro curvo e a tiro teso”. “ Ma Civita, anche noi fanti spariamo a tiro curvo con i mortai”. Si Bucciol, ma con il bazooka si spara a tiro teso non curvo!”(sic.). Il nostro comandante si riferiva ad un fatto realmente accaduto mesi prima, in primavera, quando nel poligono di Sassuolo(?), il capitano Bucciol assiste all’addestramento dei suoi allievi al tiro con il lanciarazzi “bazooka”. Volendo riprovare l’ebbrezza del tiro con quell’arma, aiutato dall’ufficiale istruttore( tenente Novelli?), dopo vari tentativi di mira al bersaglio, una sagoma posta a cento metri, preme il “bottone” di sparo. “Bum” … il razzo parte e … per poco non scollina la collinetta che fungeva da parapalle!
Attimo di smarrimento degli istruttori. Bucciol rimane impietrito col bazooka sulla spalla. Novelli a bocca aperta non sa cosa fare Gli assistenti corrono a verificare il punto di caduta del razzo. “Tutto a posto” si sente gridare dalla collinetta, l’impatto è avvenuto entro la “campana di sgombero”.Certo è che Bucciol aveva sperimentato il tiro curvo con un lanciarazzi controcarro!. Così si disse per più giorni al circolo ufficiali.
Esterrefatti rimasero gli allievi della prima compagnia che nel frontespizio del “Numero Unico”hanno voluto ricordare quel fatto. Si vede il capitano Bucciol prendere il treno per la Scuola di Guerra di Civitavecchia e salire su di un carro merci pieno di sinossi, librette, prontuari e testi tra cui un manuale speciale “for beginner”, dal titolo “ the perfect bazooka man”.
La colonna diventata lunga per il dilatarsi dei plotoni, continua la sua marcia. In vista dell’accampamento le due compagnie s dividono, la prima la vediamo andare verso le tende, beati loro! Le nostre sono più distanti e per di più con un ulteriore tratto in salita. Improvviso risuona l’alt del nostro comandante di compagnia. “Che succede ora ?”, qualcuno si domanda. “Noi siam della terza compagnia … ,”inizia Civita. “Eh sì, e di tutti siam i miglior … “borbottano i soliti paraculi, mentre un anonimo dissacratore si lascia sfuggire la variante: “ … E di tutti siam i più coglion !”. Civita continua: “Mettiamoci in ordine per un saluto al comandante di battaglione … presto mettersi in ordine … bustina sulla trequarti, calzettoni su, maniche giù!”. Leonardi, Franzolini, Lo Faso si danno da fare per il controllo dell’assetto formale di tutti. Quando siamo pronti, senza far troppo rumore, ci appropinquiamo alla tenda del comandante di battaglione. La compagnia si schiera con l’arma al piede e la baionetta inastata nello spiazzo antistante. Non si vede nessuno, eppure attorno ci sono altre tende.
Civita si avvicina all’ingresso della tenda, si mette sugli attenti, effettua il saluto e declama con voce stentorea: “Signor colonnello, la terza compagnia allievi, di ritorno dalla vetta del monte Nuda, è qui fuori schierata, per un doveroso saluto al suo comandante di battaglione!” ( lì per lì ci è sembrata la voce di Tognazzi nel film Il Federale!”). Dall’interno si sente, ma non si distingue, una flebile risposta( che stesse riposando?). Appena il pacato colonnello degli alpini Gian Fabio Polzot esce all’aperto, Civita dopo un marziale dietrofront, ordina il presentat’arm. Polzot risponde un po’ perplesso: “Grazie … grazie … ma adesso Civita faccia riposare i suoi allievi, che sono stanchi”. Pronunciate queste poche parole rientra nella tenda. Durante il pied’arm dalle ultime file sono partiti moccoli e grugniti che nel frastuono delle armi non si sono percepiti.
Finalmente arriviamo nello spiazzo della terza compagnia. “Oh giaciglio, mio caro giaciglio, eccomi! … chiare,dolci e fresche acque, sono arrivato! … via gli anfibi! … a bagno nel ruscello i piedi! … a me la latrina!”, sono i nostri desideri più ambiti quella sera.
Sembra che Civita prima di metterci in libertà abbia espresso questo desiderio: “E adesso tutta la terza compagnia in libera uscita!”. Me lo ha ricordato tempo fa Raffaele Coniglio, del primo plotone. L’invito non viene preso molto sul serio dalla maggioranza, a parte uno sparuto gruppo di allievi che “sospinto”dalla longa manus di Franzolini, si presenta dall’ufficiale di servizio al campo per la libera uscita. Ma fatti pochi passi nel piccolo paese di S.Anna Pelago saranno presto rientrati all’ovile. A smaltire la lunga giornata all’aperto con sole, vento e pioggia. E imprevisti. Tanti.
La scampagnata del 27 luglio(di 48 anni fa!)era giunta al termine, in fondo anche bene. Il più gongolante era di sicuro il nostro comandante,l’unico che aveva pensato ad un gesto di riguardo, per alcuni di sviolinatura, nei confronti del comandante di battaglione. Badando bene a non preavvisare i colleghi della sua iniziativa.
Due giorni dopo, il 29 luglio,arriva l’atteso ordine di sbaraccare. Per l’accampamento è tutto un vociare allegro e liberatorio: “E’finito il campo … domani si parte … era ora, evviva!”. E avanti con il canto della naja: “a casa si va e non si ritorna più …”.Non è il nostro caso perché noi ritorniamo … ma dopo una lunga licenza di ben cinquanta giorni, dal 2 agosto al 20 settembre, perbacco! Siamo presi da una sorta di frenesia che contagia tutti, perfino tipi come Perrone, Palanca, Cirillo, Celani. Approntiamo e disfiamo, di nuovo approntiamo e disfiamo un’altra volta lo zaino che deve essere pronto per il giorno dopo. E aspettiamo.
Quella sera non si contano le bevute di lambrusco, stappato fresco dopo averlo lasciato nell’acqua del ruscello, per festeggiare la conclusione del campo e la fine di una prova dura e così impegnativa. C’è anche chi festeggia con una intera gavetta di caffèlatte. Latte appena munto dai contadini di quella fattoria al limitare dell’accampamento. “Embè, tra noialtri c’è pò stà n’astemio … ecchè volete da Marinoo!”,tenta di giustificarsi er gavettaro Marzano. Molti di noi si recano alla sera in quella casa,i più per latte, formaggi e salumi, altri per incontrare e scambiare qualche parola con la figlia dei proprietari, una ragazza di pochi anni meno di noi. Che aiuta i genitori nella conduzione del lavoro nei campi e nella stalla. Un giorno, al ritorno da una esercitazione, la vediamo nel prato a rastrellare il fieno. E la vediamo in calzoncini! Talchè quella sera a prendere il latte ci troviamo più numerosi del solito. C’è stato un allievo, al di fuori della terza compagnia, che le è stato dietro per un po’ di sere. Chi era costui? Avevo un vago ricordo delle sue sembianze ma quando al raduno del nostro Trentennale a Modena, ho rivisto Todaro, così smilzo e così ancora seducente, mi son detto: “Toh!, eccolo qui il latin lover del Frignano”.Qualcun altro ha fatto il nome di Gianfranco Turchi. Chiunque sia farebbe bene ora a confessarlo “ coram ventesimo populo!”.
E arriva l’ultimo giorno di permanenza al campo. Alle dieci di sera ascoltiamo il silenzio fuori ordinanza eseguito dal soldato trombettiere. Lo ascoltiamo al chiaro di luna davanti alla tenda, chi seduto, chi coricato sul prato. Dopo le ultime prolungate note della tromba, parte laggiù in basso un battimani,presto seguito da un altro,e poi ancora un altro fino a coinvolgere tutto l’accampamento. Sono i trecentosettanta allievi del primo anno che omaggiano il trombettiere per la splendida esecuzione. Entrati in tenda, partono i canti che si accavallano da plotone a plotone, da una compagnia all’altra. S’inizia col notissimo “Macchinista, macchinista del diretto metti in moto che in licenza debbo andar … “,poi altri fino al trasgressivo “Cara biondina … al generale no, no,no. Perché?, perché … al colonnello no,no,no. Perché?, perché … al capitano no,no, no. Perché, perché è sempre di ispezione! … al tenente no,no,no. Perché, perche è di picchetto!,… all’allievo sì,sì,sì’.Perché?, perché te lo diciamo noi!”
I canti sono intervallati da esclamazioni che sono oggetto di derisione per i malcapitati come Rapisarda, detto “Rapisiculo dente di latta”per via di quel dentone rivestito di una sorta di lamiera da pochi soldi, che quando sorrideva assumeva le sembianze di un can bastonato,pronto a ringhiare. Un’altra è diretta a mandare finalmente a quel paese lo scelto Solimene per tutte le angherie che abbiamo subito per un anno. Ma l’esclamazione più gettonata nell’ambito della terza compagnia è l’arcinota “ A Frattarolo!” nella formula semplice, oppure nella variante con un prolungato eco finale: “… roloooooo!”. Ripensandoci credo che sia stato il nome del cadetto più noto ai residenti e ai villeggianti in tutta la Val Perticara. Quante volte si è sentito ripetere il nome di Fulvio Frattarolo da Vetralla, del terzo plotone, in tutti i ventisei giorni del campo! L’idea di quel grido era venuta da quel burlone di Giangabriele Carta, del primo plotone.
Quella notte si è dormito poco, troppo alta era l’attesa della lunga licenza che ci aspettava, ben cinquanta giorni! .Ma quanti di noi in tutti gli anni di servizio hanno potuto usufruire di cinquanta giorni di ferie di seguito. Penso nessuno. Però questa licenza di fine anno accademico spettava a coloro che avevano superato tutti gli esami di giugno.
Fortunatamente sono tra quelli.
Evviva!
Pier Gianni