LA BATTUTA

Per chi arriva da Matino, così disordinatamente arroccato sulle serre salentine, e percorrendo la tortuosa strada poderale, il campo di baseball in località Fondo Rimi appare adagiato tra alberi secolari di ulivi e filari di vitigni come i sognanti Elysian Fields, “ideali e munifici giardini di felicità concessi dagli dei alle anime dei buoni”. Intitolato con affetto al compianto Delle Castelle, giocatore matinese prematuramente scomparso, il diamante nella sua dislocazione acquista sempre nella tarda estate nuovi colori vivi, sui quali privilegia un verde-giallo ocra, che danno la possibilità di poter acquisire quasi un recondito privilegio atto ad assorbire una sensazione benefica di calmo abbandono all’irruenza quotidiana della vita, ovvero delinearsi quale giusto luogo dove stemperare pensieri di una vita passata a consumarsi così priva di ragione ed intelletto.
E tutto accadde su quel campo ed in quella domenica. Dopo un lungo pomeriggio, la gara stava ormai volgendo al termine. L’ottavo inning ancora bloccato dallo score sul due pari e là, sulle gradinate delle tribune, tra un panino ed un urlo di incoraggiamento, battevano all’unisono i cuori degli appassionati così fortemente legati alla squadra come fosse un consunto portafortuna da cullare e prendere per mano, come fosse l’intimo sentimento per un qualcosa che vale così alto al di sopra della consuetudine e del banale. Tra il disordine-ordine delle panchine l’odore degli unguenti alla canfora si miscelava con quello del sudore e il sapore della polvere era sulle labbra di tutti i giocatori. Nella prima fase del nono inning con grande carattere e determinazione il lanciatore di casa stava chiudendo a zero usando lanci liftati e a foglia secca ma di fatto stava superando se stesso per demandare poi al proprio line up il compito di risolvere la questione. Dopo il terzo out il manager, con fare impassibile e distaccato da ciò che lo circondava, iniziò con interesse a girare le pagine del suo block notes personale che portava nella tasca destra della divisa come un breviario e poi fece solo dei cenni con gli occhi verso l’assistant coach.
La tensione era elevatissima poiché sempre ogni gara poi alla fine diventava quella della vita. E questa era diventata quella della vita. Vincenzo era lì quando sentì la pacca sulle spalle con una voce a sussurrargli: “Preparati, vai secondo in battuta”. Per un attimo la casacca numero 21 restò immobile. Poi Vincenzo si alzò ed improvvisamente gli apparve nella mente il diorama vivente della sua essenza che ripercorreva i giorni, i mesi e gli anni, di fatto mai passati, da quando la prima volta prese un guantone ed accarezzò una palla. Nacque già allora un muto dialogo che era promessa e desiderio e che delineò quel desiderio in modo coinvolgente. Poi i movimenti dei fondamentali imparati lì sull’erba degli esterni si dimostrarono eterni e divennero più grandi dei gesti quotidiani tesi all’inutile ricerca del proprio limite. Stringere poi la mazza con le dita delle mani e non con i palmi delle stesse allineando le nocche per bloccare i polsi gli fece nascere la certezza di poter osare l’inosabile e questo gli aveva riscaldato più volte il cuore là nel box di battuta specialmente negli struggenti momenti di solitudine. Ed era l’antica preghiera sumera che spesso si ripeteva: “Che la gioia possa guidare il tuo cammino” a fargli intravedere la propria armonia quale essenza metafisica. Come ora al nono inning.
Quanto tempo aveva passato lì sulla panchina nell’attesa? Forse molto, ma ora questo non era più interessante saperlo poiché tutto invece gli stava indicando come fosse stato importante aver avuto la possibilità di vivere sempre con attenta riflessione e giusta calma interiore. Non doveva allora dare importanza al passato, poiché esso era ed è solo memoria di eventi trascorsi. Il futuro no, quello poteva e doveva essere realizzato quale successione di tanti istanti presenti. E il suo futuro stava iniziando lì poiché era consapevole che la sua preparazione era stata finalizzata all’evento.
Ogni particolare era stato delineato con scrupolosa attenzione senza nulla togliere al caso. L’idea che di lì a poco sarebbe andato a battere certo che lo stava attanagliando come quando ebbe il suo primo incontro segreto con l’amante, ed è per questo che ora desiderava isolarsi andando ad amare il silenzio. Quel silenzio che troppe volte gli aveva parlato con il linguaggio muto dei saggi. Quel silenzio che tante volte aveva sovrastato le parole crudeli ed inopportune per incidere direttamente sul cuore. Quel cuore che da sempre gli stava donando pulsazioni e vertigini. Ed ancora di più ora poiché era fortemente consapevole che con quella frase:” Preparati, vai secondo in battuta” era stato chiamato a salvare qualcosa. Salvare il risultato della gara con una battuta o salvare la battuta con il risultato della gara? Un enigma che stava prendendo vita mentre si toccava con nervosismo la visiera del proprio berretto scostando la ciocca di capelli.
Allora andò a scegliere con attenzione la mazza poichè era importante coordinare con lei il proprio coraggio, l’equilibrio, la forza e le rapide reazioni muscolari riportando alla mente le tre regole d’oro del mitico Ted Williams.
Ma era certo che era stato chiamato a salvare qualcosa. Tuttavia la mente gli stava proponendo esclusivamente contenuti privi di spessore ed ancora una volta stava incominciando a sentire il dramma della crisi che era certo lo avrebbe colpito lì nel box di battuta.
Eppure doveva salvare qualcosa, come lo fu con il vento freddo e tagliente della brezza marina, come lo fu con la carezza del padre quando da piccolo si addormentava.
Salvare senza involuzione per attivare quella ricerca istintiva di se stesso per capire. Salvare. Sì, e consapevolmente intuì quanto importante fosse salvare la battuta quale senso intimo ed aristocratico, quale elemento vitale dell’essere, quale mondo fatto di tradizioni, estasi e tormento come in quel racconto di Kafka che così profondamente lo aveva colpito. La battuta allora, perché la battuta, che aveva sempre dialogato con i suoi limiti fisici e del pensiero, potesse finalmente distaccarsi come nuova entità che lo personalizzasse e divenisse carismatico momento di riflessione. La battuta allora, perfetta comunione di solitudine, affinché lo aiutasse a ritrovare nella sfida degli eventi, nella ricerca dei suoi momenti migliori, nella conferma delle sue qualità da altri a volte ignorate o sottovalutate, il proprio dio sconosciuto.
E non sentì nemmeno il boato di delusione quando il primo battitore-corridore fu giudicato out in prima, assorto com’era nella sua preparazione. Poi, quando il manager gli trasmise i segnali non ebbe dubbi sul tipo di battuta poiché ora ne capiva il significato ed incominciava a sentirla nel sangue. Era certo infine che la battuta con lo swing irripetibile e condizionante lo avrebbe portato al traguardo finale come tappa conclusiva dei suoi pensieri. Con il volto duro sotto il caschetto e lo sguardo fisso davanti verso il lanciatore suo futuro prossimo, con quella pazza voglia di esserci lì per delineare quell’intrinseco ed unico valore in cui credere, si posizionò nel box con i piedi leggermente divaricati e le ginocchia appena flesse.
Quando l’arbitro con voce roca chiamò il play ball, sentì svanire la tensione e, dopo aver fissato per un attimo gli occhi del lanciatore, ne seguì solo il movimento del braccio sino al rilascio della palla memorizzando l’apertura delle dita della mano per intuire quel percorso che era diventato lo specchio convesso della sua vita. Lo “stride” fu automatico e quando sentì che aveva colpito la palla provò il fremito dei polsi che si scioglievano e ruotavano permettendo alla mazza di completare lo swing. Il mento, ripiegato sulla spalla posteriore, stava guidando i suoi occhi a fissare il punto di contatto.
Poi si scosse lasciando cadere la mazza e correndo verso la prima base guardò disincantato la palla che si era alzata e volava, volava, e volava, volava fin quando l’urlo degli appassionati coprì la sua fase discendente ben oltre la rete dell’esterno sinistro. Un incredibile fuori campo che ora stava chiudendo la gara con una sequenza di attimi dopo attimi sino a fargli intuire nella blanda corsa sulle basi il senso vero del grande valore di quella battuta. Sì, poiché quella battuta, nella sua esecuzione, era diventata la personale e forte ricerca della sua libertà.
Michele Dodde