Voci come musica

Dedicato, nella ricorrenza dell’8 marzo, alle donne del “ Ventesimo Corso”, comunque esse siano state o siano, madri,mogli, compagne, figlie, sorelle; a coloro cioè che hanno colmato di bellezza e reso stabile l’alterno gioco della vita di noi tutti compagni di Corso.

La voce femminile, qualunque essa sia o comunque si proponga, è, di per sé,  dolcissima. Se poi è quella della donna amata rifluisce dentro continuamente, senza posa, incancellabile, risuona come un’armonia perenne, divenendo ampia nella memoria.

 Ci sono voci femminili che rivelano una profonda bontà d’animo; che possono sciogliere l’inimicizia e l’estraneità, provocare oscillazioni della sensibilità individuale e generare emozioni  trasformando l’ascolto in contemplazione.

 Una voce femminile può lasciar trasparire un’anima smarrita che brancola ed annaspa ciecamente ai margini della vita, incapace, per poter sopravvivere, di camuffare la paura e gli effluvi dell’angoscia.

 Ci sono le voci delle donne”buone”, di coloro cioè che nell’intimo della casa, continuando ad essere indisturbate proprietà private, in quanto conformate ai canoni maschili, dimostrano una virtù che  potrebbe sembrare la realizzazione delle loro aspirazioni ma non è altro che un forte segnale d’impotenza da addebitarsi alla carenza di esperienza e quindi di conoscenza.

 Ci sono voci di donne forti che non hanno sperperato gli anni ma hanno consumato il tempo e profuso la vita nello sforzo di non fallire il proprio compito e di non far smarrire la via a coloro che hanno amato; voci che esauste, piegate dalla debolezza ma ancora in piedi, nella solitudine hanno ascoltato solo se stesse, impenetrabili al torpore e che, rinfocolate continuamente dalla speranza, hanno arricchito gli spazi vuoti della vita altrui.

 Ci sono voci di donne che immobili accanto al letto sostengono con teneri accenti chi a loro si aggrappa per afferrare ogni sguardo e ogni sospiro e per continuare ad avere coscienza del tempo e la speranza di un’esistenza che torni a ricomporsi.

 Ci sono voci di donne fortissime che hanno sostenuto gli sguardi della Storia perseguendo come Antigone, una delle più grandi figure femminili della letteratura di tutti i tempi, la via dell’imperativo morale in aperto contrasto con i dettati della legge, ponendo un terribile ed eterno interrogativo sulla liceità della scelta. La “Antigone”, che il compositore Carl Orff mise in scena servendosi integralmente del dramma omonimo di Sofocle, splendidamente tradotto dal poeta tedesco  Hoerderlin, espone, ricorrendo al Mito, la tragica vicenda di una  donna – Antigone, appunto- che cerca di dare degna sepoltura  al cadavere del fratello Polinice morto nel suo fallito tentativo di attacco alla città di Tebe governata dal re Creonte. Il Re, infatti, aveva decretato che il corpo di Polinice, suo nemico e traditore, fosse lasciato a decomporsi, insepolto, preda di cani e di avvoltoi e che, inoltre,  fosse punito con la morte chiunque avesse tentato di dare ad esso sepoltura. Antigone, sollecitata in maniera fortissima dal suo amore fraterno, disobbedisce alla legge del Re, copre di terra il corpo del fratello ma, scoperta, viene condannata a morire. Nell’opera di Orff Antigone non canta affatto, ma recita, parla continuamente con una voce sovrapposta ad un’armonia basata unicamente “ sul ritmo quale elemento partecipe in egual misura della natura intellettuale e sensoriale dell’uomo e quale principio regolatore di tutti gli elementi dello spettacolo” (Fassone). Una voce unica che dispiegando toni ora selvaggi e ruggenti ora tenerissimi, conferisce ad Antigone il suo valore tragico, la tristezza del tragico che, coniugato con la pena profonda ed il profondo afflato religioso, afferma il principio femminile dell’eroina realizzando la “grazia tragica” di cui parla il filosofo Kierkegaard, e, nel contempo, la giustificazione morale dell’essere vittima.

 Ci sono voci femminili che, all’interno della trascendente solitudine dei chiostri , dispiegano la loro uguaglianza di vita comune, di vestiario uniforme, di sottomissione ed obbedienza offerte in sacrificio della loro singolarità e che con la semplice e nobile preghiera sussurrata, anonima, mai frettolosa, abbracciano il divino nell’espressione di un’intima gioia rivissuta continuamente nella chiusura e nella perfezione del mondo monastico.

 Ci sono voci femminili che, sorrette dall’ebbrezza della libertà conquistata o da riconquistare, urlano dentro e fuori di sé;  fortissime e straordinarie quelle delle antiche donne cartaginesi che sul porto, mostrando i loro seni nudi ai guerrieri che salpavano per combattere, erano capaci con le loro grida  di scatenare ed elevare al più alto grado l’orgoglio ed il coraggio di costoro celebrando la dimensione eroica dell’evento con smisurata dignità.

 Ci sono le voci che cantano le ninne nanne: terrestri semplicità ma soavi e seducenti aliti di vita, irraggiungibili nella loro delicata malia.

 Ci sono infine voci femminili che non parlano a nessuno ma solo a se stesse in soliloqui chiusi ed inarcati in respiri che sembrano non avere nemmeno fame d’aria, a mala pena dispersi nella brezza della sera, come velati dalla consapevolezza di una vita insabbiata nell’impotenza. Armattoe, un poeta del Ghana, così recita in una sua poesia: “ Ho incontrato una vecchietta / che parlava a se stessa/ lungo una strada solitaria. / Che ne sapete perché la gente parla da sola. / Se la strada è lunga e mancano i compagni / uno parla a se stesso. / Se come nugoli di frecce /arrivano i dolori / il viandante parlerà a se stesso. / Così una vecchietta / ridendo tutto il tempo / lungo una strada solitaria / può mormorare fra sé / per scacciare le lacrime. / Donna, tu sei triste! / Ma succede anche a me “.

 Questa la musica della voce femminile.

 Giuseppe Campa