Ai miei compagni di Corso, in particolare agli amici della Puglia, invio questo particolare valore estetico, scaturito da una realtà precisa della mia terra, delle mie origini. Dopo anni di assenza dal Salento, ritornando, mi sono impadronito del suo significato originario, della sua funzione d’uso, del suo simbolismo.  E così vengo a ripetermi che non c’è solo l’opera d’arte fatta di un dialetto, di un idioma e della sua traduzione, ma,dietro di essa, c’è la vita, la grande e commovente sfera degli uomini e delle cose. Perché ognuno ami la propria terra e la propria etnia!

Vi abbraccio

Pippi Campa

Dedicato ai figli di Paolo Stomeo:

Chiara, Giuseppe, Luciana e Maria Antonietta

 UNA MAGNIFICA SIMBIOSI  SALENTINA

 

 Paolo Stomeo traduce “ Roda ce Kattia “ – Rose e spine - di Vito Domenico Palumbo

 

- a cura di Giuseppe Campa -

Il prof. Paolo Stomeo

Vito Domenico Palumbo
(da un ritratto del nipote M. Palumbo)

Il prof. Paolo Stomeo, alcuni decenni or sono, riuscì a riunire in una splendida raccolta molta parte della produzione poetica in dialetto griko del grande studioso calimerese Vito Domenico Palumbo (1854-1918 ), insigne personaggio e grande animatore del risveglio culturale del Salento.

 Tale raccolta può considerarsi un risultato straordinario perseguito e  raggiunto dal prof. Stomeo coniugando la compostezza di un metodo dall’indiscusso rigore filologico con l’amore o meglio con l’ostinata volontà di cogliere il segreto vitale di un antico e prezioso linguaggio popolare che da tempi lontanissimi, come brace sotto la cenere, covava ancora in alcuni luoghi del Salento.

Castrignano de’ Greci : “ Furneddhu” ( foto amatoriale)

 

Martano:  ex edificio Scuola Media (foto amatoriale) Martano: Palazzo Pino ( foto amatoriale)

Condusse, difatti, uno studio eccezionale sul patrimonio poetico di Vito Domenico Palumbo, operando generalmente su manoscritti autografi, trascrivendo le poesie foneticamente secondo la pronuncia greco-calimerese e, infine, traducendole dall’idioma greco salentino nella lingua italiana. Traspare chiara, ovviamente, la grandissima ammirazione che il prof. Stomeo riservava alla vita e all’opera del poeta calimerese così permeate di sorpresa passionale e di trepidazione esistenziale per i bagliori ambientali e culturali del Salento. Alla raccolta diede un titolo che aveva reperito fra le carte dello stesso Palumbo: “ Roda ce Kattia “ ovvero “ Rose e spine”.

Frontespizio del volume “Roda ce Kattia”

Filippo de Pisis: “Rose”

Con la pubblicazione dell’opera, avvenuta nel 1971 a cura del prestigioso Centro di Studi Salentini di Lecce, lo studioso deve aver avuto non solo la consapevolezza di essere fra i primissimi se non il primo ad aver riunito in un solo volume tanta produzione poetica tradotta dal griko con il testo a fronte ma anche la coscienza esatta della funzione e dell’importanza dell’opera stessa sia in rapporto al pubblico cui si rivolgeva sia come valorizzazione di un idioma. Pertanto, se da un lato il prof. Stomeo rivendicava come giusto ed opportuno lo strumento linguistico, il griko, dall’altro ne affermava decisamente la validità in sé, dimostrandone la dignità fonico-lessicale, sintattica e strutturale in senso lato.

Potrei aggiungere che questo affondo nella sensibilissima anima del poeta calimerese, sicuramente dettato da un’illusione romantica, fu alquanto coraggioso vuoi perché il griko tendeva ad esaurirsi vuoi  perché la versione in italiano era finalizzata a ricercare        un’equivalenza fra i due idiomi e operare quindi una convergenza fra due mondi espressivi.

 

Giuseppe Campa:”Innamoramento” –inchiostro rosso su cartoncino- 50x70

Per tradurre i versi della raccolta si rese necessario stabilire virtualmente con il poeta una specie di simbiosi che definirei spirituale ed estremamente raffinata: un doppio registro, una coniugabilità sorprendente fra il testo griko e la versione, manifestatasi da parte del traduttore come un’indipendenza creativa per nulla appiattita sul testo ma sempre alla ricerca di un nuovo valore poetico, diverso, cioè, ma altrettanto splendido ed efficace. Una sperimentazione linguistica? Direi, piuttosto, un non comune coinvolgimento personale, una dimostrazione di forza che con continuità diversificatrice e, aggiungerei, con una dinamica rigenerativa notevolissima ha disegnato una logica poetica diversa.

Paolo Stomeo ordinò la raccolta in tre parti: Canti d’amore”, “ Canti di argomento vario”,

 “ Riduzioni e traduzioni da poesie italiane e straniere”.

 In questo contesto si tratterà solo dei Canti d’amore

Riporto di seguito alcune strofe dei canti quinto, secondo e nono.

 Sentiremo in esse la fatica del traduttore e lo sforzo di mantenere inalterato il grado di incandescente freschezza del verso. E come non avvertire altresì il ricorso ad un linguaggio o meglio ad una ricerca della parola che possa dar rilievo ai lineamenti interiori del sentire poetico? Si coglie, d’altro canto, l’esigenza di una maggiore libertà  nei confronti della struttura codificata del brano poetico. Nascono così delle differenze non tanto nell’impianto strofico ma soprattutto nelle rime le quali nella traduzione, comparendo in numero limitatissimo, scompaiono quasi, lasciando il posto ad un ampio gioco di assonanze avide di italianità.

Leggiamo

 

Canto V

Ta kàglio ttraudàca-mu

Ta kàglio ttraudàca-mu
Dikà-mmu ‘en i’ mmakà:
ec’èssu sti kkardìa-mmu
esù mu ta fsunnà.

O lustro pu a’tta ammàddhia-su
T’oria ta mavra gguenni
ec’essu sti kkardìa-mmu
san-iglion òrio ‘benni;

ce toa ta traudàca-mu
skonnutte ess’òla ‘a meri
kundu ‘a fiuraca skònnutte
ston iglio ‘o kalocèri

Ce kundu e fiùri niftonta
‘rtèa ston iglio votane
ius puru ta traudàca-mu
‘sse esèna pu gapùne:

iatì, kundu a’ tton iglio
èu’ ccina ti dzoì,
ius èu’ tta traudàca-mu
‘pu fsè-su, agapitì.
 

I miei migliori canti

I miei migliori canti
miei non sono affatto:
dentro il mio cuore
tu me li risvegli.

La luce che esce
dagli occhi tuoi neri e belli
dentro il mio cuore
penetra bella come il sole;

e allora i miei canti
si levano da tutte le parti
come si levano i fiorellini
al sole d’estate..

E come i fiori aprendosi
si volgono verso il sole
così anche i miei canti
verso te che amano:

perché, come dal sole
essi hanno la vita,
così i miei canti hanno
( la vita ) da te, mia bella.
 

Francesca”   ( foto amatoriale di Ivan Fini )

Ritengo che questa immagine, posta a commento della poesia su riportata, possa tradurre simbolicamente l’approdo del poeta al miraggio di una condizione che è nello stesso tempo segno e desiderio: una vertigine solare di natura mediterranea

 

Curiosamente si viene a scoprire un “ poeta rivale” che abbandonando la rigida struttura metrica, dà luogo ad uno schema forse più facile ma ad una ricerca lirica sicuramente, a mio avviso, più ampia.

 Leggiamo ancora

Canto II

O poèta ce o traùdi

 

Il poeta e il canto

_ Traùdi-mu;  traudài

tì fseri’ nna mu pi’?

_ Ola possa eki o angora

e tàlassa ce e gì.

 

Rota a’ sse ci’ pu teli’,

fsero na su to po;

piàkone a’ tto skulici

ce ftase sto Tteò.

 

Ola a mistèria  ‘u kosmu

ta fsero: pukanè

ftadzo, ce sti ffonì-mmu

apantà tikanè,

 

‘ti ola in’ dikà-mmu; ria

ime ‘os pramàto evò,

c’’en eki addho ppi mena

sto kkosmo ce ‘o Tteò.

 

Satti milò, su fseri’

cina pu leo na pi,

ce tino mmeletìsi’

n’ ‘o kkami’ nna ta di?

 

N’ ‘o kkami’ nna ielasi

satti pu su ielà,

n’ ‘o kkami’ nna dammiàsi

satti moroloà?

 

N’ ‘o ssiris epù teli’

ce panta sa ddiflò,

n’ ‘u doci tti kardìa

sti kkera m’ena llo?

 

Na kami’ ttuon endiàdzete  

Kardìa, tevni, fsikì;

a ttaki’ tutta tria,

 ambrò, an de’, mi ssistì.

 

_ Enòisa: ‘en ià mena                Il poeta

Secundu pu torò;    

seru lì llì kkardìa

  addho den eko evò.

 

Ià tuo, traumi-mmu, t’adda

Ta finnome ola ampì

Ei’ ttinon  addho kkàio

Pi mena natapi’?

 

Emèna do-mmu roda

Ia cinu pu’ gapò

Ce kattia embelenàta

Ia cinu pu misò

_Canto mio, canto mio bello,

che cosa sai tu dirmi?

 Tutte le cose che ha il cielo,

il mare e la terra.

 

 Domanda quello che tu vuoi,

 te lo so dire;

 comincia dal verme

 e arriva fino a Dio.

 

Tutti i misteri del mondo

 io li conosco: io arrivo

 dovunque, e alla mia voce

 risponde ogni cosa,

 

 chè tutte le cose sono mie: re

 io sono delle cose,

 e non v’è altri che me

 nel mondo, e Dio.

 

 Quando parlo, sai tu

 ripetere quelle cose che io dico,

 e a colui al quale tu leggi

 farle vedere?

 

  farlo ridere

  quando tu ridi,

  farlo lacrimare

  quando tu piangi?

 

   tirarlo dove tu vuoi

   e sempre come un cieco,

   tenere il suo cuore

   nella tua mano con una sola parola?

 

     Per far questo occorre

     cuore, arte, anima;

     se hai queste tre cose,

     avanti, se no, non ti muovere.

 

     _ Ho capito: non è per me

     come vedo;

     all’infuori di un po’ di cuore

     altro non ho.

 

     Perciò, canto mio bello, le altre cose

     lasciamole tutte da parte

     Hai qualche altro migliore

     che le possa cantare?

 

      A me, dammi rose

      per quelli che io amo,

      e spine avvelenate

      per quelli che odio

   

Torre dell’Orso (foto amatoriale)

 

E ora il meraviglioso canto IX

Pirte

E’ partita

 

 

Pu è’ tto rodo tt’òrio

to miristò? t’astèri?  

cino pu lustron èkanne

simòna kalocèri?

 

Pirte, chiasi to rodo-mmu,

t’asteri spittarò,

c’evò ftechiùddhin èmima

e’ mmes to skotinò.

 

Otikanè skotìnase,

tìpoti ‘en ei pleo chiari

arte pu e mavri sòrta-mu

tèlise na mu ppari!

 

Cevò ftechiuddhin èmina

sekùndu ‘itti  rrodèa

pu tis eskòrpise o ànemo    

ta roda rotinà.

 

C’ ‘e mmeni addho pi kàttia 

stus klaru ttu iurnù, 

pu proi parèan ìus òria

ta roda rotinò.

 

C’evò ola ci’tta akàttia,

tacchio mes ti kkardìa

ce me tripù cce o ièma-mmu

pai rante e mmia cce mia

 

 

Ce rei ce pai to ièma-mmu

ce  òli-mu e dzoi;

chiasi to rodo, o astèri-mmu,

e agapi-mmu kalì

 

Dov’è la rosa bella

profumata? La stella?

quella che dava luce

d’inverno e d’estate?

 

E’ partita, è scomparsa la mia rosa,

la stella sfavillante,

ed io poverino! Sono rimasto

in mezzo alle tenebre.

 

Tutto è diventato tenebra,

nulla più ha grazia

ora che la mia nera sorte

ha voluto portarmela via!

 

Ed io poverino! Son rimasto

come quella pianta di rosa

cui il vento ha sparpagliato

le rose in ogni parte.

 

E non rimane altro che spine

nei suoi rami nudi,

che prima tanto graziosamente ornavano

le rose rosse.

 

Ed io tutte quelle spine

le ho nel cuore,

e mi trafiggono, e il mio sangue

se ne va goccia a goccia.

 

 

E scorre e va il mio sangue

e tutta la mia vita;

è scomparsa la rosa, la mia stella,

il mio amore bello.

 

Spine di rosa ( dal volume” Ritratti di rose”- Mondadori)

F.de Pisis:”Ramo nudo

Spina di rosa ( dal volume” Ritratti di rose”- Mondadori)

Commovente! Potrebbe essere commentata con le note della Winterreise di Franz Schubert

da Fabrizio de Andrè ma la traduzione stessa è già musica! 

Appare chiaramente l’adeguazione al battito del verso in griko e contemporaneamente lo sforzo di non cancellare la vocazione poetica ma di coglierne la complessità sciogliendola nella leggerezza delle assonanze e nella fluidità verbale. D’altronde perché torcere il linguaggio in una nuova scansione metrica  e nella rima? Era possibile, ma per Paolo Stomeo era più urgente cercare le parole che come “ freschi ciottoli “- usando una felice metafora del poeta inglese Spender – “ portassero con sé l’atmosfera della pioggia o il riverbero dei tramonti

 

“I ciottoli del selciato” ( foto inedita di Valentina Ruvio)

 

Riporto a tale proposito alcune riflessioni.

 

Dante, ad esempio, nel Convivio ( I, 7, 14 ) scrive: “ ….e però sappia  ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata, si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la ragione perché Omero non si mutò di greco in latino come l’altre scritture che avemo da loro….”.

Generalmente vero! Potrei nel nostro caso opporre due argomenti

 

Dante

Leopardi

Anzitutto ciò che accomuna Vito Domenico Palumbo e Paolo Stomeo è la matrice ambientale e culturale. Nati dalle stesse zolle salentine di terra rossa hanno sviluppato un sentire comune e da questo han dato vita ad una flagranza del contatto mentale annullando la distanza generazionale a favore di una emozionante continuità del sentire poetico.
Mi viene, poi, in soccorso Leopardi quando nello Zibaldone ( 12 ) così afferma:” …Molte volte noi troviamo nell’autore che traduciamo, per esempio greco ( è il nostro caso! N.d.r.), un composto, una parola che ci pare ardita e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga e fatto questo siam contenti. Ma spessissimo quel tal composto o parola…non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta e perciò nei lettori greci faceva quell’effetto….Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato una parola equivalentissima,…tuttavia non hai fatto niente se questa parola non fa in noi quell’impressione che faceva nei greci…”.

Difatti, invito gentilmente il lettore a porre lo sguardo alla traduzione, ad esempio, della sesta strofa del canto nono, laddove “ tripù “ ( da  “trupanizo” , io foro,trivello, perforo, trapasso ) viene reso con “ trafiggere” e poi ancora “ pai rante e mmìa cce mìa “  ( letteralmente “ gocciolare a una a una “ ) viene reso con “ se ne va goccia a goccia”, illuminando il pulsare della sofferenza nella solitudine più assoluta.

 

Pablo Picasso:  “ Il vecchio chitarrista cieco”

 

In altri canti non è difficile accertare la delicatezza del dolce stil novo che, sia in griko che nella traduzione, compare quasi un incantamento immerso in un elemento armonico. Ne è un esempio il canto diciannove “ Tosson ìsela”, uno dei più belli, nel quale figura il tema del “ messaggero d’amore” che il Palumbo  affida al profumo di una rosa di maggio e alla melodia di un canto. Similmente avevano operato Guido Cavalcanti nella rima “ Perch’i’ no spero di tornar giammai, / ballatetta, in Toscana, / va’ tu, leggera e piana, / dritt’a la donna mia, che per sua cortesia / ti farà molto onore….”, e ancora, nonchè incredibilmente in una terra lontanissima, il più famoso dei poemi intitolati a un messaggero d’amore, il Meghadùta ( Il nuvolo messaggero ) del poeta indiano Kalidasa ( sec.IV-V), nel quale, con la più celebre e perfetta poesia lirica la funzione mediatrice è affidata ad un elemento naturale ovvero a una nuvola.

Leggiamo ora Vito Domenico Palumbo e Paolo Stomeo

 

Canto XIX

 
Tosson ìsela Tanto vorrei

Tosson ìsela, agàpi-mu,

na ime e merodìa,

tunù rodu  ‘u maìu

pu vo su ‘mbièo.

 

G.Campa “ Mariateresa”

Isela na ime o nòima,

na ime e mmelodìa

tunù tu traudìu

pu kkumpanèo;

 

satti pu su mirìdzese

ec’èssu sti kkardìa

na sombo, ec’ès to ièma

ce sta mmialà;

 

ec’èssu sti ccofàli-ssu

nambo san armonìa

na chierestò ma sena

   pu meletà.

 

Tanto vorrei, amore mio,

essere il profumo

di questa rosa di maggio

che io ti mando

F.de Pisis “ Rosa”

Vorrei essere il concetto,

essere la melodia

di questo canto

che accompagno

 

quando tu ti odori,

 dentro l’anima

entrarti, e nel sangue

  e nel cervello;

 

 dentro la tua testa

entrare come armonia

per gioire con te

 che leggi

 

Ecco come l’immagine del desiderio, così densa di significato, è quasi addossata alla parola, si identifica con essa. E’ uno splendore visivo, è profumo e poi suono

Nel canto seguente, “ Magàri “ , il XX, si può osservare e gustare da un lato una grande ricchezza poetica e dall’altro una traduzione che è principalmente delicato controllo della parola. Il “delicato” è da intendere “leggero”. Il poeta francese Paul Valery diceva:” Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma. “  Ce lo ricorda anche il calimerese Giuseppe Aprile nel suo “ Aremu rindineddha-mu “. E i versi di Palumbo sono come fantasmi leggeri, spesso sfuggenti. In questo vivere mobile e ricco si muove anche la poetica del traduttore, una poetica che obbedisce al concetto del fare, lontana da un’estetica assolutistica della traduzione e del “ ne varietur”!

Leggiamo

Canto XX
Magàri Per quanto

 

Magàri ‘os ammadìo-mmu

panta panta n’ ‘os po:” Tappu ‘i ttorrìte

cini, na min estrèfsete

ce a’ fse dàmmia chiarà min gomistìte”,

 

magari tis kardìa-mmu

panta panta n’ ‘is  po:” ’Min ebbattèfsi’

iu ddinnatà: mu fènete

‘ti essu a’tto ppetto è’ nna mu tsumpèfsi”,

 

magàri tu pensièri-mu

panta panta n’ ‘u  po: “ Mi pensa e ccini:

‘ti cini è’ fselochiàriti

Ce agàpin apù safti na mi mmini’

 

Evò ma to pensièri-mmu     

ma sena mera nifta panta steo:

se torò ce e kardìa-mu

mu petà i’  ‘i  cchiarà ce tosso kkleo

 

 

Per quanto ai miei occhi

sempre sempre io dica:“Quando la vedete,

non lampeggiate                        

e non vi riempite di lacrime di gioia”,

 

per quanto al mio cuore

sempre io dica:” Non battere

così forte: mi sembra

che tu voglia saltarmi dal petto”,

 

per quanto al mio pensiero

sempre io dica:” Non pensare a lei,

chè quella è senza grazia,

“e da lei non aspettarti amore”,

 

io col mio pensiero

sto sempre con te notte e giorno:

ti vedo e il mio cuore

mi vola per la gioia e tanto piango

 

Nel canto, tutto è chiuso in un’atmosfera contemplativa, priva di drammaticità, di scosse, di mutamenti e così anche nella versione viene conservata quell’armonia e quella diffusa dolcezza che sembrano rinnovare la convenzione amorosa del Trecento. Quale piacere intenso della parola e quale fluire melodioso dei versi: “ Magàri….magàri….magàri  “ ovvero  “ Per quanto ai miei occhi….per quanto al mio cuore….per quanto ai miei pensieri “. E’ un incedere dantesco, d’accordo! Ma è bellissimo!

Giuseppe Campa: “ Il sogno” – inchiostro rosso su cartoncino-70x100-

Tutte le poesie facenti parte dei “ Canti d’amore” hanno impresso, più o meno manifestamente, il motivo dell’eros. Il canto XXXIII , “ Traùdi ‘os traudìo” ovvero “ Il Cantico dei Cantici”, segna forse il punto di maggiore intensità passionale e sensuale. Gonfio di segrete parole, esso discioglie in meraviglia l’irresistibile incanto erotico di un’intimità . Il Palumbo sa bene come l’arte del verso debba organizzarsi per affermare le vibrazioni dell’eros. Egli filtra il sogno di un amore da possedere, insegue e si appoggia all’idea neoplatonica di bellezza onde poter liberare e manifestare un’intensa sensualità. Il suo amore  tende ad essere quasi un archetipo da contemplare e, da grande uomo di cultura, in questo slancio sembrerebbe  ricongiungersi al pensiero di Marsilio Ficino ed alla “Primavera” del Botticelli in quanto tale quadro rappresenterebbe “ il processo di trasformazione della forza primordiale della passione amorosa in contemplazione intellettuale” ( Rizzardi ). Ma ecco  che l’effusione idealizzante viene a urtare contro il gelido cuore della donna amata

Sandro Botticelli: “La primavera” (particolare)

 

Ma è interessantissimo notare soprattutto come in questo componimento Vito Domenico Palumbo riprenda e ricalchi le intense suggestioni della raccolta di poesie “ Gli Amoretti “ del poeta inglese Edmund Spenser, vissuto nella seconda metà del ‘500. Assistiamo, pertanto, ad un parallelismo incredibile fra il Sonetto 64 e, ancor di più, fra i Sonetti 76 e 77 degli Amoretti e il nostro “ Traùdi ‘os traudìo”. In esso il Palumbo, dando prova del rispetto del suo bisogno espressivo, sprigiona una vera voluttà della parola rendendola capace di generare immagini di grande e silenziosa intimità segnando la visione della donna amata nella sua perfezione di forme fisiche, nella sua sostanza terrena.
In eguale misura si propone Paolo Stomeo, affidando la traduzione ad un linguaggio voluttuoso ed elaborato, ottenuto attraverso uno studio sottile sia della parola che degli effetti suggestivi del verso.
Leggiamo.
 

Canto  XXXIII

Traùdi ‘os traùdio Cantico dei cantici
 

Simmeri te’ nna plefso to traùdi-mmu

m’ ‘a lòia tu Traùdi ‘os Traudìo:

Esu ise rodo, krinos, ise tortura,

ise o nnerò pu ìsela na pio.

 

 

Oggi voglio intrecciare il mio canto

con le parole del Cantico dei Cantici:

Tu sei rosa, giglio, sei tortora,

sei l’acqua che vorrei bere.

 

Giuseppe Campa: “ Tu sei rosa” –inchiostro rosso su cartoncino- 57x75-

 

T’ammàddia-su ‘a lustrànta ine diu ‘stèria

fse cina ta pleon òria spittarà,

pus tin ìmisi nnifta rindinìdzune

tappu ‘en ei fengo ce ola i’ skotinà.

 

C’egguénni mia glicada apù ‘s t’ammàddia

ta maga, ce mu ‘mbenni sti kkardìa

glicèa glicèa sekùndu pu a’ tt’astèria

petti panu stu ffiùrus e drosìa.

O frontili-ssu è tturri ce e garzèddhe-su

emmiadzu’ mma diu mila rotino,

ce ta chili-su òria me ‘mbriacèune 

ma krasì pu ‘i ccoffali su votà

 

 

I tuoi occhi luminosi sono due stelle,

di quelle più belle, sfavillanti,

che a mezzanotte scintillano,

quando non c’è luna e tutto è oscurità

 

Ed esce una dolcezza dai tuoi occhi        

ammaliatori, e mi penetra nel cuore

dolcissimamente come dalle stelle

cade sui fiori la rugiada.

La tua fronte è una torre e le tue guancine

somigliano a due mele rosse,

e le tue belle labbra m’inebriano

come vino che ti fa girare la testa.

 

Giuseppe Campa: “ La vida es sueno” –inchiostro rosso su cartoncino  -57x75-

Ta milaca tu pèttu-su aspra-mmiadzune

diu rifaca pu pedzu’ sto chiortàri;

tappu ta kanonò, òria-mu, channome,

ce, an dè ppo alìssia, o diàvalo ‘a mme pari.

 

Satti pu canonò ta diu podàca-su 

ta limbastréna, vo en vrisko ma ti

na ta mmiàso, ce ‘itta diu chierùddia-su

mu fènutte diu krini aspri nifti.

 

Ce satti pu pratis, òria-mu, fènese

san enan iglio motti pu ste gguenni

ise oli òria ce… Ma t’addho pu ìsela

na po ‘c’es to traùdi-mu ‘en ambènni

 

iatì vo ‘en ime, o Salamone, agàpi-mu,

ola possa lei cino na su po;

c’esù ise sa tturri pu de’ ssiete

magàri ti vo leo ce traudò.

 

Le  bianche mele del tuo petto somigliano

a due capretti che scherzano sull’erba;

quando le guardo, bella mia, mi perdo,

e, se non dico il vero, il diavolo mi porti.

 

Quando guardo i tuoi piedini 

di alabastro, io non trovo con che cosa   

paragonarli, e quelle tue manine

mi sembrano due gigli bianchi aperti.

 

E quando cammini, bella, mi sembri

come un sole quando sta per sorgere.

Sei tutta bella e…Ma l’altro che vorrei      

non entra nel mio canto,

 

perché io non sono Salomone, amor mio,

per quanto io dica e canti.

per dirti tutto ciò che dice lui;

e tu sei come una torre che non si muove

 

Appendice

Due momenti della cerimonia per la posa della lapide nella casa di Vito Domenico Palumbo

Il prof. Stomeo in primo piano, secondo da sinistra  (foto amatoriale)

 

Il prof. Stomeo, primo da sinistra. Sulla parete il ritratto di Vito Domenico Palumbo da giovane(foto amatoriale)

Calimera:La casa di Vito Domenico Palumbo ( foto amatoriali)

La lapide sul frontone della casa

Riporto di seguito le frasi finali della conferenza tenuta dal prof. Paolo Stomeo il 22 marzo 1958 nella sala dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene.

“ … Come quasi tutti gli uomini i quali hanno fatto dello studio disinteressato e nobile la loro principale passione e lo scopo di tutta la loro vita, il Palumbo trascorse gli ultimi anni nella miseria e nelle sofferenze e morì nella sua modesta ed umile casa paterna di Calimera, dove oggi, per mia iniziativa e per volontà della locale Amministrazione comunale, è stata dedicata alla sua memoria una lapide da me dettata così:
 

In quest’umile casa

accanto alla sua mamma e ai suoi libri

soli e grandi amori

della sua povera esistenza solitaria

visse

dal 22 aprile 1854 al 2 marzo 1918

VITO DOMENICO PALUMBO

letterato ellenista  poeta

animatore del risveglio culturale greco - salentino 

 

 

Atene 22 marzo 1958

prof. Paolo Stomeo

 

Diploma col quale S.M. il Re Giorgio I di Grecia, insigniva il 4 settembre 1908, Vito Domenico Palumbo della Croce d’argento dei cavalieri del Reale Ordine del Salvatore.

La madre di Vito Domenico Palumbo 

L’interno della casa di Vito Domenico Palumbo ( da quadri di Marco Palumbo )

Busto in bronzo di Vito Domenico Palumbo posto nei Giardini pubblici di Calmiera (foto amatoriale)

Riporto di seguito un brano della Conferenza di Vito Domenico Palumbo, tenuta ad Atene nel 1896 sulle colonie greche dell’Italia meridionale, riportato dall’interessante e bellissimo volume “ Vito Domenico Palumbo e la Grecìa Salentina” di Paolo Stomeo,  in un’edizione realizzata dal Comune di Calimera nel 1986

Traduzione

 

 “…Certamente nella poesia popolare greco- salentina non si trova il forte pathos, che si osserva nella poesia popolare della Grecia, e che costituisce il suo carattere principale e le dà il primato fra tutte le eccellenti poesie popolari. Ma ciò non è cosa da stupire. Ogni pianta, trasportata fuori dal patrio suolo, perde qualche cosa della sua essenza e del suo carattere ed acquista in cambio un’altra proprietà conforme al nuovo clima. Così anche la nostra poesia, se ha perduto la forza della passione greca, ha tuttavia acquistato parte della tenerezza, della grazia e della freschezza, che caratterizzano il “ dolce stil nuovo”, come fu chiamato. …”
 

(trad. di Paolo Stomeo)

Le foto di Martano, di Calimera e di Torre dell’Orso sono dell’Ing.Giuseppe Stomeo
FINE